Nella scena immensa della vecchia stazione di Siviglia trasformata in studio cinematografico da tanti pannelli, pareti, specchi, l'autore di CRIA CUERVOS ha convocato 300 artisti di diverse generazioni: senza alcun commento di genere etnografico (decisione forse utile all'economia estetica del film; meno alla nostra curiosità di saperne di più) essi si esibiscono individualmente o coralmente nei diversi stili di flamenco classico e gitano, fandango, tango, buleria, solea, rumba, eccetera.

Il principio è quello della semplicità, della stilizzazione. Lo sguardo di Saura detta le inquadrature ad uno dei protagonisti della fotografia cinematografica contemporanea, Vittorio Storaro. E la folgorazione solare, ambrata e carezzante, abbagliante o crepuscolare della luce dell'operatore di Bertolucci e Coppola crea uno straordinario contrappunto al mistero sospeso della musica andalusa; alla sua inimitabile istintività, trascinante dinamica, drammatica gestualità, commovente intimità.

Spazio, luce e suono si organizzano con una perfezione che non ha nulla di premeditato e di artificioso. Fino ad uno splendido finale, dove i protagonisti più gloriosi ed anziani sembrano farsi da parte: per lasciare lo spazio immenso ad una folla di giovani che si abbandonano in una rumba inebriante, proiettando nel futuro, con gioia e vitalità esaltanti una rievocazione ed una celebrazione che è esaltante proprio per non essere tale.